scandalinbohemia: (Default)
Fiorediloto ([personal profile] scandalinbohemia) wrote2006-12-11 03:11 pm

[House] Hit the Cripple (2/3)

Titolo: Hit the Cripple
Fandom: House MD
Pairing: House/Wilson (o viceversa, insomma, a chi importa?)
Parte: 2/3
Rating: R


[0] Aim
[1] Head (100 points)




[2] Body (500 points)


Per quel che poteva ricordare, in casa di House il tavolo della cucina non era mai stato adibito ai pasti. Era largo e piuttosto comodo, ma il suo utilizzo più frequente era quello di deposito di oggetti che il padrone di casa non sapeva dove scaricare. Se House riusciva a rimediare qualche folle intenzionato a sfidare la fortuna, poteva anche diventare tavolo da gioco per una delle sue nottate a poker.
Dovendo fare alla maniera di Stacy, Wilson gli avrebbe portato da mangiare direttamente a letto, per non stancarlo. Doveva esserci un vassoio da qualche parte.
Dovendo fare alla maniera di House, Wilson avrebbe preparato i piatti e portato il tutto insieme alla birra in salotto, per cenare sul divano di fronte alla tv accesa.
Ma siccome lui non era né Stacy né House, e ringraziava sempre Dio per questo, avrebbe fatto a modo suo. Perciò tolse dal tavolo l’ultimo strato, paurosamente alto, di oggetti senza fissa dimora, stese una tovaglia macchiata di sugo e apparecchiò.
House entrò in cucina con quella che, malgrado la gamba e il fatto che procedesse appoggiandosi ai muri, gli parve un’indubbia risolutezza.
«Quasi pronto» lo avvisò Wilson, mescolando gli spaghetti con il sugo precotto.
«Uh. Niente grembiule a fiori?» sbottò House, zoppicando fino alla sedia più vicina. Era uno dei due posti che Wilson aveva apparecchiato; strategicamente, per la verità.
«Gli hai dato fuoco quattro anni fa» rispose, rivoltando il contenuto della pentola nella speranza che la schifezza precotta si amalgamasse un po’ meglio di così.
«È stato quando hai tentato di accendere il barbecue?»
«Quando io ho tentato di accenderlo e tu di darmi fuoco.»
«Ma lo stavi accendendo tu?»
«Io lo stavo accendendo e tu ci hai messo dentro un lato del grembiule. Mentre l’avevo ancora addosso.» Alzò lo sguardo, preso da un’improvvisa irritazione. «Ehi! Ma che volevi fare, uccidermi?»
House ghignò. «Mortificava la tua bellezza. Ti ho sempre detto di puntare sulle righe.»
Wilson lasciò cadere uno sguardo sulla propria cravatta. A righe, appunto. Si chiese perché non l’avesse ancora sfilata; forza dell’abitudine. «Be’, era l’unico grembiule che avevi in casa e non mi andava di immolare una camicia alla causa.»
«Io ti avevo suggerito di arrostire a torso nudo.»
«Oh sì. James, l’ultimo dei Mohicani» mormorò Wilson tra sé, tanto distratto che il suono soffocato alle sue spalle lo colse di sorpresa. Era una risata, scoprì voltandosi. House stava ridendo.
Lo seguì quasi subito, automaticamente. Era un suono, scoprì, che gli era mancato più di quanto si fosse permesso di pensare. Per questo, quando svaporò in un silenzio imbarazzato, provvide a sostituirlo con nuove parole inutili.
«La gamba?»
«Attaccata al resto.»
Wilson annuì, di nuovo e improvvisamente consapevole del Vicodin nella tasca dei pantaloni. Fece le porzioni, allungando volutamente a House la più scarsa.
L’altro alzò gli occhi, fissandolo con un misto di perplessità, fastidio e minaccia mortale, e Wilson scambiò i piatti con un sorriso.
Mangiarono in silenzio. Wilson ignorò deliberatamente il tremore della forchetta nella mano destra di House, e il numero di volte che questa andò a tintinnare contro il piatto quando l’altro la lasciò cadere per massaggiarsi la gamba.
Quanto a House, non fece commenti sulla sua cucina. Gli spaghetti non erano poi così male, ma a un tratto Wilson sentì il bisogno estremo di sentirgli dire che erano scotti e sconditi - che sembrava che una mucca ci avesse sputato sopra, che una scimmia con un braccio atrofico avrebbe potuto fare di meglio - solo per sapere che gli erano piaciuti, e che tutto aveva, se non la sostanza, almeno l’apparenza della normalità.
«Buoni?» chiese a un certo punto, contemplando il piatto ancora mezzo pieno di House.
«Mm» fu il massimo che ottenne in risposta.
Lo squillo del telefono si intromise con prepotenza nella loro non-conversazione.
Wilson sospirò e fece per alzarsi, ma House gli ordinò, senza alzare gli occhi dal piatto: «Stai seduto».
Wilson pensò che volesse andare a rispondere al suo posto. «Vado io.»
«Stai seduto» ripeté House, più lentamente.
Quando gli fu chiaro che nessuno dei due sarebbe andato a rispondere, Wilson si rilassò contro la sedia. Fece un ultimo tentativo, solo per rimorso di coscienza: «Potrebbe essere importante».
«Non ti preoccupare, Rose non ti lascerà per telefono.»
«Rachel… io e lei non…»
«Certo che no» disse House. «Andate d’amore e d’accordo.»
«È solo… un brutto periodo.»
House alzò gli occhi, mentre il telefono continuava a squillare. «Perché non vai a casa, allora?»
«Dovremmo rispondere. Si preoccuperà.»
House lo guardò, attendendo una risposta.
Perché non posso lasciarti solo, idiota. Sospirò. «È andata a stare qualche giorno da una sua amica.»
«Non tornerà.»
«Certo che tornerà.»
«No. Ne ha avuto abbastanza.» Puntò le mani sul tavolo, cercando di alzarsi. Il telefono diede un ultimo squillo, più breve, e tacque prima che partisse il nastro registrato della segreteria. «Non si preoccupi, infermiera. Arrivo solo fino al divano» lo avvisò, notando come Wilson faceva per alzarsi a sua volta.
«Tu non parlavi di Rachel» mormorò, guardandolo arrancare verso il salotto.
«Ah, si chiama così?» ribatté House.
Sparecchiò e lavò i piatti mentre le voci dalla tv si sostituivano al silenzio come sottofondo della loro inesistente comunicazione. Quando ebbe finito, svariate gocce d’acqua e uno schizzo di detersivo si aggiungevano al sacro sudore di Gregory House sulla sua camicia.
«Vado a casa» disse, affacciandosi in salotto.
House non alzò gli occhi, ma a Wilson parve che la mano si irrigidisse intorno al telecomando.
«Vado a prendere qualche ricambio, lo spazzolino, cose così» precisò Wilson. «Dovrei sbrigarmi in un quarto d’ora.»
«Mm» rispose House, cambiando canale.
Il più giovane emise un sospiro vagamente sconsolato. «Per favore, cerca di non ucciderti mentre non ci sono. Vorrei presenziare all’evento.»
«Coscienza sporca, Jimmy?»
«Pulitissima.»
«Dammi quelle dannate pillole e non dovrai preoccuparti di niente.»
«Ho un’idea migliore. Perché non la smetti di pensare alla tua gamba?»
«Non posso. Penso a tutti i miei organi a turno, sai, per non farli sentire soli.» Strinse le palpebre. «Oh, ciao, milza. Come va?»
«Allora siamo a posto, visto che la gamba è un arto.» Staccò la giacca dall’appendiabiti e andò a prendere la borsa dal divano. «Sono quasi sicuro di averla lasciata chiusa» commentò.
«Quasi? Stai invecchiando.»
«House…» Scosse la testa. Perché allontanarsi gli sembrava una pessima idea? «Almeno cerca di non affogarti con la tua stessa saliva» mormorò, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Per esperienza, Wilson sapeva che Gregory House era esponenzialmente più pericoloso in compagnia che da solo. Questo perché quand’era solo l’esibizionismo tendeva ad affievolirsi, la mancanza di un pubblico gli toglieva verve, la noia gli fiaccava l’entusiasmo. Tuttavia, le cose peggiori Gregory House le aveva compiute proprio da solo, in vista di un prossimo siparietto comico. Se c’era qualcosa che amava era dare fastidio, se c’era un modo in cui amava farlo era con premeditazione, e se c’era una sua vittima preferita, be’, quella era proprio Wilson.
Per questo raccolse le proprie cose il più velocemente possibile, si cambiò e gettò la cravatta ancora annodata all’appendiabiti, tutto pur di restringere il tempo d’azione di quel pazzo in crisi d’astinenza. Aprì la porta di casa di House sedici minuti e ventiquattro secondi dopo esserne uscito, con un leggero fiatone.
Lo trovò esattamente dove l’aveva lasciato, sul divano, intento a fare zapping con l’aria più innocente del mondo.
«Prima che io accenda la luce» disse, appoggiando un dito sull’interruttore, «hai aperto i fornelli per farci saltare in aria tutti e due?»
Non ricevette risposta.
«Sappi che se l’hai fatto mi avrai sulla coscienza» dichiarò prima di accendere il lampadario, cui per fortuna non seguì alcuna esplosione mortale.
Si avvicinò al divano. I canali tv scorrevano con metronomica precisione. «Ehi?»
House non si voltò. Mettendogli una mano sulla spalla, Wilson percepì quanto fossero contratti i suoi muscoli. «House…?»
Un leggero velo di sudore gli imperlava la fronte.
«Ho bisogno del Vicodin» disse, a bassa voce. «… per favore» aggiunse, in un ansimo.
Wilson ritirò la mano. «Domani mattina alle sei» ripeté, cercando di suonare inespressivo. «Perché non vai a letto?»
«Per favore, Wilson.» Si voltò, rivolgendogli uno sguardo così genuinamente sofferente che l’altro si sentì vacillare.
«House… devi rispettare degli orari. Non puoi drogarti di quella roba.»
«Tu non hai idea di quanto fa male.»
Neanche tu, pensò Wilson, abbassando lo sguardo. «Se non ti serve niente io andrei a farmi una doccia.»
«Mi servono quelle fottute pillole!»
Scaricò il borsone con la propria roba vicino al divano, tirandone fuori l’accappatoio, una maglietta di casa e i pantaloni del pigiama. «L’unica cosa che ti serve è smettere di pensare a quelle pillole e a quella gamba» disse. «Domani chiedo alla Cuddy se ha qualche caso irrisolvibile da passarti. Almeno terrai la mente impegnata.» Allungò la mano per strappargli il telecomando, dato che lo stava stringendo così forte da far crocchiare la plastica esterna, ma House gli bloccò il polso con la sinistra.
«Non mi sto inventando niente» sibilò, tirandolo verso di sé, con tanta decisione che Wilson dovette lasciar cadere la roba sul divano per mantenere l’equilibrio contro lo schienale.
«Che stai…»
House gli tirò la mano fino alla coscia, finché le dita esitanti di Wilson non sfiorarono la stoffa leggera del pigiama. Al di sotto, costretto dalla presa ferrea dell’altro, Wilson avvertì il rilievo irregolare della cicatrice e dei muscoli intorno, esattamente come la sua vista aveva comunicato alle sue dita quando l’aveva visto - spiato - nella vasca, e adesso era il contrario, ma la sensazione la stessa.
Alzò gli occhi, incontrando i suoi. «Lo so che fa male» mormorò. «Ma io non posso… lasciami.»
«Dammele.»
«No.»
La presa si serrò fino a divenire soffocante. Wilson sentì le dita formicolare, le ossa del polso ribellarsi alla compressione. Non abbassò lo sguardo.
«Non te le darò, House. Se ti vuoi sfogare accontentati della destra. La sinistra mi serve.»
Quando lo lasciò, Wilson pensò che sarebbe rimasto il segno per un bel po’.

La doccia gli fece bene. Si era chiuso dentro a chiave, non per sfiducia, ma insomma, sì, per totale sfiducia nei confronti di House e del tubetto di Vicodin che aveva lasciato nella tasca dei pantaloni. Nel raggiungere il bagno aveva notato una serie di cose fuori posto che gli avevano descritto molto bene l’itinerario del suo amico alla ricerca delle pillole - non ultimo uno sportello della cucina che ricordava perfettamente chiuso.
Non stentava a credere che la gamba gli facesse male, dopo quell’allegra passeggiata per tutta la casa.
Sotto le dita, aveva sentito i muscoli tutto intorno alla cicatrice contrarsi e rilassarsi in corrispondenza del suo tocco, come una marea inquieta incapace di rilassarsi - di rassegnarsi - e trovare, almeno per un momento, un po’ di pace.
Se House l’aveva fatto per farlo sentire in colpa…
Spinse la maniglia della doccia, osservando l’acqua rimasta sgocciolare via dal suo corpo.
Se l’aveva fatto per farlo sentire in colpa, c’era riuscito.
La luce nella stanza da letto era accesa, quella non molto potente del comodino, e Wilson si affacciò con un asciugamano sui capelli bagnati e i vestiti sporchi sul braccio. House era disteso sulla schiena, sopra le lenzuola, un braccio ripiegato sugli occhi. «Buonanotte, House.»
«Dove stai andando?»
«A dormire.»
«Dove?»
Wilson corrugò la fronte. «A meno che tu non abbia una stanza degli ospiti che mi hai tenuto nascosta fino ad oggi, nel qual caso credo proprio che ti accoltellerò alla schiena, la risposta è sul tuo divano.»
House scostò il braccio. «Non puoi.»
«E perché?»
«È sporco.»
Wilson socchiuse le palpebre, perplesso. «Era pulito fino a un’ora fa.»
«E ora non lo è più. Il cane.»
«House, tu non hai un cane.»
«Il cane dei vicini.»
«Il cane dei vicini» ripeté Wilson. «Il tizio sordo che sta di fronte o la vecchia pazza con dieci gatti?»
«La seconda. Ci credo che voleva cambiare aria, povera bestia.»
«House…»
«Se fossi in te mi accontenterei di questa versione, perché la verità è sempre peggio.»
Wilson sospirò, strofinandosi distrattamente i capelli con l’asciugamano. «E quindi? Devo dormire per terra o posso arrangiare due lenzuola sul tavolo?»
«Dormi qui» disse House.
«Qui?»
La mano di House si spostò sulla piazza vuota. «Se non tiri calci.»
«No, no, aspetta. Qual è il trucco?»
«Nessun trucco.»
«Se è un modo per arrivare a quelle pillole…»
«Le tieni nelle mutande?» ribatté House, disgustato.
Wilson scosse la testa, gettando i vestiti su una poltrona vicino alla metà vuota del letto. Sapeva che togliere le pillole adesso era un errore, ma era stanco di schivare gli assalti di House.
Probabilmente voleva solo compagnia. Aveva dormito per cinque anni con un’altra persona accanto e ora era solo. Lui ricordava ancora bene lo smarrimento dei primi tempi dopo la rottura con Sarah.
Sedette sul bordo del letto, sentendo il lieve cigolio della rete e l’incurvarsi del materasso sotto di sé. Appoggiò il tubetto sul pavimento vicino al comodino. «Dovresti coprirti» osservò, gettandogli uno sguardo.
«Sei sempre così materno o sono io che ti ispiro tenerezza?»
«In realtà se non ti togli le lenzuola da sotto la schiena non posso coprirmi neppure io.»
House sbuffò e puntò il piede sinistro contro il materasso, sollevandosi a fatica, quanto bastava per disincastrare le lenzuola e permettere a Wilson di aiutarlo.
Quando furono entrambi sistemati, House allungò una mano a spegnere la lampada e la stanza sprofondò nel buio. Seguirono vari istanti di silenzio.
«House?»
«Mm?» grugnì il padrone di casa.
«È solo…» Wilson inspirò ed espirò, esitando, «… mi dispiace.»
Attese una risposta per quasi un minuto, sentendo i secondi sgocciolare nella testa come un rubinetto difettoso, prima di mormorare un leggero “Buonanotte” e voltare il viso contro il cuscino. Profumo di donna, pensò distrattamente.
Quasi trasalì quando le dita di House invasero il suo spazio sotto le coperte e gli toccarono il polso sinistro, prima solo sfiorandolo, poi stringendolo in un lento massaggio – accarezzando il segno che l’indomani sarebbe stato coperto da un rapido cambio di posto dell’orologio. Quando le dita si soffermarono sul rilievo pulsante della vena, Wilson trattenne il fiato.
Anche a me.
Poi la mano di House scivolò via, ed entrambi si voltarono dal proprio lato.

Al risveglio non c’era nessun cinguettio d’uccellini né trillo di sveglia, e le palpebre di James Wilson si dimostravano stranamente poco collaborative. Era un tipo mattiniero, non aveva mai avuto difficoltà a svegliarsi all’ora esatta, e spesso anticipava la sveglia della manciata di minuti necessaria a riprendere coscienza e spegnerla prima che suonasse.
Ma stavolta, allungando la mano verso il comodino, non trovò nessun bottone da schiacciare, e quando al terzo tentativo riaprì gli occhi si rese conto che era ancora notte – e che quello non era il suo letto.
Da qualche parte accanto a lui, qualcuno stava gemendo. Una serie di ansiti brevi e spezzati, seguiti da un lungo gemito contratto e soffocato contro il cuscino. Voltandosi, vide la figura di House rattrappita sul fianco intorno alla gamba lesa, le mani strette sulla coscia, le lenzuola accartocciate dal suo lato. Gli voltava la schiena.
«House» lo chiamò. «House, che c’è?»
L’altro non rispose, a meno che un gemito gutturale come di bestia ferita non potesse definirsi risposta. La mano destra stava sfregando la coscia con tanta forza che Wilson si domandò se non stesse amplificando il dolore, anziché diminuirlo. La prese nella sua, per bloccarlo, e House si aggrappò alle sue dita con uno scatto di disperazione.
«Calmo» mormorò, spostandogli la mano e posandogliela sullo stomaco. «Calmo.» Riportò la propria sulla coscia, delicatamente. Attraverso il leggero strato di cotone avvertiva il calore di House e di riflesso il proprio. Mosse la mano in un lento circolo sulla cicatrice, non perché pensava che potesse servire ad alleviare il dolore, ma per dare a House l’illusione che fosse così.
Con una lentezza infinita, il più vecchio si andò rilassando sotto il suo tocco. Sospirò, e Wilson con lui, appoggiando la fronte contro la sua spalla. «Grazie a Dio» sussurrò. «Meglio?»
Invece di rispondere, House appoggiò la mano sulla sua e la strinse, non con la furia disperata di un momento prima né con la rabbia feroce della sera, ma in una presa salda e tiepida cui l’altro non si sottrasse.
«Tornerà» sussurrò Wilson. «Torneranno.»
House mosse la sua mano lentamente sopra la coscia, in un movimento spezzato che dopo qualche secondo assunse una certa fluidità e permise a Wilson di rilassarsi inconsciamente mentre lo lasciava fare. Qualunque cosa, pensò senza pensarlo, per aiutarlo a stare meglio.
I loro corpi aderivano quasi l’uno all’altro, anche se Wilson non ricordava quando si fossero avvicinati così tanto. La sua guancia premeva contro la spalla di House nel tentativo di spiarne l’espressione, e il gomito sinistro, su cui era appoggiato, formicolava di silenzioso dolore.
Credette di distinguere il momento esatto in cui qualcosa cambiò - un flash d’avvertimento gli lampeggiò nella mente. La mano di House cambiò angolazione sulla sua, poi la trascinò più in alto, sconfinando dal circolo familiare della cicatrice. Più in alto e più interno. Wilson trattenne il fiato e ripiegò le dita prima stese, opponendo una minima resistenza che l’altro vinse senza battaglia.
A volte può capitare che il cervello interpreti i segnali di dolore come segnali di piacere.
«House…»
O forse doveva solo distrarsi, e pensò, smettendo di ostacolarlo, meglio così che facendosi del male.
Sentì House voltarsi lentamente, lasciandosi scivolare sulla schiena, e d’un tratto si ritrovarono a guardarsi in faccia. Per Wilson fu una scarica di adrenalina che poco aveva a che fare con l’amicizia, la compassione e l’aiuto disinteressato. Quando la mano di House portò la sua all’orlo dei pantaloni e poi si ritirò, Wilson la lasciò scivolare sotto l’elastico senza riflessione.
Pensò che non c’era niente di tanto strano - che House stava male, che aveva bisogno di distrarsi, che - buffa questa - era stato lui a dirgli di pensare ad altro. Continuò a dirsi che non c’era niente di strano finché non appoggiò la guancia sulla clavicola di House e sentì l’altro passargli un braccio intorno alle spalle.
Era molto dimagrito. Non era mai stato un tipo in carne, ma adesso la maglietta gli penzolava desolata dal torace, e l’elastico dei pantaloni doveva fare del suo meglio per aderire al profilo ossuto delle anche. La clavicola sporgeva come lo spigolo di una scrivania contro la guancia di Wilson.
Lo strinse piano e House sospirò rumorosamente, muovendo la mano destra in una lenta carezza sulla sua schiena. Forse fino a quel momento aveva potuto dirsi che non c’era niente di strano - poteva pure aver creduto alla storia dell’obbligo morale e dell’amicizia. Ma poi un brivido seguì il percorso delle dita di House sulla sua spina dorsale, e Wilson si ritrovò col viso affondato nell’incavo del suo collo e le labbra che istintivamente andavano alla ricerca di un punto sensibile vicino all’orecchio.
House si tese, piegando il capo dall’altro lato per lasciargli più spazio. La mano afferrò la maglietta e la tirò su per scoprire la schiena, per toccarla, per tracciarvi sopra sentieri invisibili, mentre i brividi si moltiplicavano e Wilson si chiedeva che diavolo sto facendo, House, che diavolo stiamo facendo.
Parlare sarebbe stato come ammettere che c’era della coscienza in ciò che stava accadendo, perciò Wilson tenne i propri pensieri per sé e si limitò a spingersi verso l’altro, accarezzandolo più forte.
Allo stesso modo ascoltò senza fiatare il fruscio dei vestiti e delle lenzuola quando House si voltò verso di lui, sollevandogli il viso con la mano libera, e gli accarezzò le labbra con il pollice.
Iniziò lento e stucchevole come un primo appuntamento. Mentre si baciavano sentì quella stessa mano scorrergli lungo il corpo fino ad afferrare le lenzuola abbandonate in mezzo a loro, coprire entrambi e poi ridiscendere lungo il suo addome, sollevargli la maglietta e scostargli i pantaloni.
Ritrovarsi eccitato come un quattordicenne nel letto del suo miglior amico, scoprì, non lo sorprese affatto. Si fecero così vicini che ormai si strusciavano l’uno contro l’altro, le mani che cozzavano nocche contro nocche nel tentativo di trovare un incastro perfetto nella geometria mobile dei loro corpi, e un affanno tangibile nel modo in cui il bacio si sfrangiava in mille piccole schermaglie senza fiato.
Alla fine rimasero a riprendere fiato l’uno addosso all’altro. Wilson con la guancia sulla spalla di House, la mano ferma dove l’aveva lasciata - House con metà del corpo incastrata specularmente sotto di lui, immobile. Quando Wilson alzò gli occhi per guardarlo, l’altro districò la mano pulita e si contorse infelicemente per pescare fuori dal cassetto una scatola di kleenex, che gettò sul letto.
Qualunque cosa fosse stata, Wilson sentì che questo era l’unico momento per parlarne, e al tempo stesso che non voleva pronunciare una sola parola a riguardo. Si ripulì in silenzio, riducendo i kleenex sporchi a una pallina di carta che tirò senza speranza verso il cestino. Non controllò se aveva fatto centro.
House si era girato sul fianco dal suo lato, e Wilson fece appello a tutto il proprio autocontrollo per dirigere il proprio corpo dalla parte opposta, appoggiare la guancia sul cuscino e chiudere gli occhi un’altra volta.
«Buonanotte» bisbigliò, senza quasi avvedersene, e il silenzio gli si frantumò intorno come un palloncino bucato da uno spillo.
House mugugnò in risposta; ma forse, più probabilmente, se l’era solo immaginato.



[3] Heart (∞ points)

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