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Titolo: By luck or accident (My brother)
Fandom: House MD
Coppia: Gregory House/James Wilson
Rating: PG-13. Più avanti incest. Siete avvisati.
Conteggio Parole: 2.414
Riassunto: Qualcuno non si sposa, qualcuno è geloso, e qualcuno si fa tanto, tanto male.
Disclaimer: Se togliete loro il cognome, David e Paul sono miei. E anche Sarah-la-moglie-N°1. Gli altri sono di papà Shore e dello stuolo di autori pazzi.
Grazie a: Ery e Morgana per le pre-letture e a Mercy per lo stesso motivo e perché non mi sopporta più XDD
Nota: questa fic è (e rimarrà) incompleta. (28/06/2009)
Prologo. The wedding day
13 Maggio 1992
Era una mattina di maggio, una bella mattina di sole, e il nodo di una cravatta non poteva certo sperare di rovinarne la bellezza.
Se gliel’avessero chiesto, James Wilson avrebbe risposto senza esitazione che quello era il più bel giorno della sua vita. Un po’ clichè, forse, un po’ scontato. Si suppone che il giorno del tuo matrimonio - specie se è il primo e non si trascina ingombranti paragoni alle spalle - sia il più bello della tua vita, e che niente possa intaccare la tua gioia.
Ma James Wilson vi credeva fermamente.
Mentre i lembi della cravatta gli scivolavano tra le dita leggermente tremanti, seguitava a ripetersi che ognuna di quelle emozioni che gli stillavano dal cuore al cervello come sgocciolii di un rubinetto difettoso non potevano essere solo il prodotto di reazioni chimiche; che tutto ciò che sapeva sulla natura biologica dell’uomo non poteva intaccare, neanche minimamente, la magia di ciò che stava provando. Che l’amore, o qualunque altro sentimento - compresa quella goffaggine fastidiosa ma dolce del non riuscire ad annodare la cravatta - andavano troppo oltre la comprensione sua o di chiunque altro essere umano, e che la medicina non avrebbe mai potuto circoscrivere i confini dell’anima.
E a lui andava benissimo così.
«Da’ qua, faccio io» interloquì Paul, voltandolo per le spalle e spostandogli le mani dal nodo sbilenco. «Hai le mani sudate» constatò, col tono di un’osservazione banale, in realtà reprimendo un sogghigno sotto i baffi. Letteralmente: Paul Wilson aveva un paio di rigogliosi baffi castani che facevano contrasto con la distesa perfettamente sbarbata delle guance.
A differenza di James, che aveva un che di morbido e di armonioso nei lineamenti, Paul era un uomo spigoloso e segaligno, più alto della media, a cui la sbarbatura sempre perfetta sembrava accentuare i mille angoli e incavi del viso, disegnandogli in faccia ombre puntute come lame di coltello.
Nel complesso era dotato di una sua armonia, anche se le ragazze gli avevano sempre preferito il fratello minore. Il carattere, probabilmente, più di qualsiasi avvenenza, gli aveva permesso di conquistare quella che fuor d’ogni intento poetico definiva la sua metà: una deliziosa hostess dieci anni più giovane, conosciuta durante un volo d’affari, che gli aveva dato modo di riprodursi in tre piccoli Wilson dai tratti molto più gentili e gradevoli del padre.
Nel complesso tra lui e James la somiglianza era minima, fatta eccezione forse per il taglio degli occhi.
James Wilson strinse i pugni, notando che sì, suo fratello aveva ragione. Aveva le mani sudate. Anche il nervosismo, però, gli sembrava una sensazione importante, da riconoscere e archiviare nella memoria. Quando l’avesse sentita bussare nuovamente alla sua coscienza, l’avrebbe riconosciuta e ricollegata a quel giorno particolare, a quel momento particolare, al sole che penetrava in tutta la sua pienezza tra le veneziane aperte e al lieve aroma di dopobarba di Paul che gli saliva alle narici.
«Che ore sono?» domandò, guardandosi intorno alla ricerca di un orologio.
«Le dieci, e tu sei quasi pronto. Stai calmo. Per arrivare in ritardo dovresti come minimo ammazzare qualcuno.»
«Si suppone che io debba salvarla, la gente, non ucciderla» commentò James, in tono per nulla rilassato.
«Certo, e avresti avuto maggiori probabilità con un’altra specializzazione…»
«Paul…»
«Niente, niente. La smetto.» Paul Wilson sorrise, facendo un passo indietro per contemplare la sua opera. «Voilà. Nodo perfetto, né troppo lungo né troppo corto. Sarah non potrà lamentarsi delle foto per il suo album.»
James sospirò, rimirandosi per qualche istante nello specchio. «Potrei anche presentarmi con un giubbotto di pelle e gli occhiali da sole, sarà sempre lei che guarderanno. Sarà… Dio, Paul, sarà bellissima.» Appoggiò le dita sul muro, premendo i polpastrelli rigidi contro la tappezzeria. «Tu l’hai vista? Con l’abito, intendo.»
«No, Christine mi ha trascinato via. Dice che porta male.»
«Porta male se lo vede lo sposo» lo corresse James. «E poi è una superstizione stupida.»
«Allora perché non hai fatto un salto? Paura di inciampare nello strascico?» interloquì una voce ironica dalla soglia della porta.
James sorrise, immaginandosi nell’atto di pestare un lembo dell’abito bianco di Sarah e volare dritto tra le braccia del rabbino, o peggio, della madre di lei.
«Sarah non voleva» rispose. «E poi mi piacciono le sorprese.»
David Wilson disincrociò le braccia e avanzò nella camera da letto, fermandosi alla sinistra del fratello. «Allora senti un po’ questa: non trovo gli anelli.»
«Cosa?» esclamò James, sbiancando.
Il fratello minore gli appoggiò il braccio sulla spalla, facendosi apparire come in un gioco di prestigio una scatolina di gioielleria tra le dita. «Scherzavo. Eccoli qui, i tuoi pegni d’amore.»
«Stai cercando di uccidermi? Aspetta almeno che torni dalla luna di miele» borbottò James, strappandogliela di mano e aprendola per controllare che fosse tutto a posto. Con David non si sa mai.
Invece era tutto a posto, gli anelli intatti, le incisioni perfette e senza sbavature.
Incontrò lo sguardo del fratello nello specchio. A differenza di Paul, tra loro due la somiglianza era netta e precisa come un esame del DNA. David aveva i tratti più affilati e i capelli più chiari dei suoi, ma gli occhi erano un marchio inconfondibile, la forma della mascella identica, gli stessi incisivi un po’ storti coperti dalle stesse labbra carnose. I suoi capelli, lunghi, gli solleticarono la guancia quando David appoggiò il mento sulla sua spalla.
Paul uscì dalla stanza.
«Senti, lo so che ne abbiamo parlato tante volte, ma…»
«Sì, David» lo interruppe. «Sono sicuro. La amo, voglio stare con lei per tutta la vita.»
«Ma è così…», prese un respiro, «scialba.»
«Non è affatto scialba, e comunque non per me. È bellissima.»
«Non mi riferivo all’aspetto.»
Si guardarono nello specchio. «È una ragazza molto intelligente, è dolce, è sensibile. Abbiamo mille cose in comune.»
«L’unica cosa che avete in comune è il modo in cui accostate i colori. E non è poi un granché.»
«Perché invece il signor…» gettò anche lui uno sguardo alla porta, per poi abbassare drasticamente la voce, «il signor Re della moda sa sempre come accostare i colori, vero?»
David ridacchiò, avvicinando maggiormente le labbra all’orecchio del fratello. «Sai perfettamente che il nostro senso del gusto è dieci volte più sviluppato del vostro. E non cambiare argomento, Jimmy.»
«Non ci sto neanche provando. Tanto non mi farai cambiare idea, Dave. Io la amo.»
«E va bene.» David fece un passo indietro. «Ma non aspettarti di venire a piangere sulla mia spalla quando troverai qualcuno più intelligente e sensibile e quella fede ti scotterà improvvisamente al dito.»
«Qualcuna, David» lo corresse distrattamente. «Qualcuna.»
«È quello che ho detto» replicò il fratello, lasciando la stanza.
Quando salì sulla Cadillac, l’autista accese il motore e gli rivolse un sorriso comprensivo nello specchietto.
L’uomo - un azzimato signore sulla cinquantina, dall’aria professionale - era stata un’idea di sua madre, così come la gran parte dell’organizzazione del matrimonio. A James non sarebbe importato di fare tanto in grande. Una cerimonia anonima in una sinagoga sperduta di periferia sarebbe stata più che sufficiente, per quanto gliene importava, e Sarah avrebbe potuto indossare un sacco di tela o niente - Dio -, e sarebbe stata ugualmente meravigliosa.
Tuttavia, c’era anche quel senso di giustezza nel fare le cose nel modo giusto, nei tempi giusti, col giusto contorno di decorazioni e parenti e madri in lacrime. James Wilson non amava le folle né il pubblico, ma doveva riconoscere che un matrimonio così ben organizzato - il suo matrimonio - sarebbe stato difficile da dimenticare.
Socchiuse gli occhi, specchiandosi nel finestrino.
Scialba.
Sarah non era affatto scialba. Aveva un carattere delizioso, la pelle bianca, e gli occhi… Dio, gli occhi. Quando sorrideva James si sentiva in grado di qualsiasi cosa. Si sentiva forte. Si sentiva bene.
David era intelligente, ma non l’aveva mai trovata simpatica. Forse aveva qualcosa contro la dolcezza in genere - visti i suoi gusti, era possibile - o forse semplicemente contro le ragazze giovani e belle che ti rubano il tuo fratello preferito.
Sì, era un po’ triste pensarlo, ma James credeva che la ragione primaria fosse la gelosia. A vent’anni si è troppo idioti per capire concetti come casa, famiglia, figli. E James ne aveva solo ventiquattro, ma sapeva di volere fermamente e con tutto il cuore ognuna di quelle tre, singole co-
L’urto lo proiettò contro il sedile antistante, mandando la sua faccia a sbattere con violenza contro il poggiatesta. Per svariati secondi vide stelline di dolore vorticargli sotto le palpebre, mentre una goccia di senso d’equilibrio scampato alla botta lo informava che la macchina si era fermata. James Wilson si passò il palmo sulla faccia e lo ritirò sporco di sangue. Il naso doleva come dopo una pallonata particolarmente violenta, e gli occhi presero a lacrimare per il bruciore che si spandeva rapidamente al resto del viso.
Quando riaprì gli occhi, si accorse di essere solo dentro la macchina. Lo sportello dell’autista era aperto. Da dietro il velo di lacrime cercò a tentoni la maniglia e brancolò fuori dalla vettura, mettendosi in piedi.
La prima cosa che vide fu il sangue, e non il suo. Ricopriva in una larga chiazza la fronte di un uomo riverso sull’asfalto, e in parte era gocciolato sull’asfalto stesso. Era tanto, troppo. Solo marginalmente James si accorse della moto in parte seppellita sotto la Cadillac, in parte conficcata nella carrozzeria. Un lampo di arancione gli balenò all’angolo dell’occhio, subito cancellato.
L’autista era chino sull’uomo svenuto, e continuava a ripetere a nessuno in particolare che non era stata colpa sua.
Prima regola in caso di incidente stradale: non toccare niente finché non arriva un medico.
Si lasciò cadere in ginocchio accanto al ferito, tastandogli il collo. Vivo, grazie a Dio. L’urto l’aveva sbalzato sull’asfalto a qualche metro dalla Cadillac. Niente casco.
Pescò il cellulare dalla tasca, componendo il 911 e tendendolo all’autista perché chiamasse i soccorsi. Il polso dello sconosciuto era debole, ma c’era. Aveva perso molto sangue. Merda.
Pupille dilatate, commozione cerebrale. Gli aprì il giubbotto, sollevando un’improbabile maglietta dei Rolling Stones per scoprire le costole. A un primo sguardo gli parvero intere, nessun ematoma. Voltò il ferito in una posizione meno innaturale, con delicatezza.
«Avanti, amico» sibilò, dandogli qualche schiaffetto sulle guance. «Svegliati. Svegliati, cazzo.»
Il polso andava rallentando.
«Se ti svegli te lo regalo io, un casco, ma svegliati, cazzo» ansimò, come se l’altro potesse sentirlo - e invece continuò a giacere inerte sotto le sue mani, come una bambola rotta.
Poi il polso si spense del tutto, e il cuore di Mr. Rolling Stones diede un ultimo battito prima di fermarsi.
Gli occhi erano azzurri, sotto le palpebre, intessuti di piccole venuzze rosse ai bordi. James Wilson non l’aveva notato, dapprima, ma l’azzurro dell’iride non era una distesa omogenea, bensì una superficie screziata di riflessi grigi e blu.
Qualcos’altro, comunque, oltre ai riflessi e alle screziature, vi si rimescolava dentro, e in questo caso gli pareva proprio fastidio.
Certo, non poteva biasimarlo… ma in qualche modo riteneva che lo sguardo di un ferito al risveglio dovesse essere un misto di confusione, paura, stupore. Il fastidio era un po’… eccentrico.
«Si trova in ospedale» gli disse, prima che lo chiedesse. Gettò un’occhiata al monitor dei segni vitali. «Ha avuto un incidente con la moto, ma adesso sta bene.»
L’altro dischiuse le labbra, umettandosele lentamente con la lingua. Non era sbarbato, e un po’ di sangue gli era rimasto incrostato tra i peli della barba, sulla mascella.
«Non mi… pare di averti invitato al mio funerale» borbottò, appuntando lo sguardo sul suo vestito elegante.
James Wilson sorrise appena, spontaneamente. «In realtà, oggi mi sarei dovuto sposare.»
«Ho rovinato un idillio? Lei ti ha lasciato dopo che l’hai abbandonata sull’altare?» sbuffò il ferito, sarcastico.
«Ehm… no.»
Mr. Rolling Stones, come l’aveva ribattezzato, chiuse gli occhi e poi li riaprì. «Ehi. Quello è il mio portafoglio» mormorò, con voce rauca.
«Mi scusi. Cercavo…»
«Cosa cercavi?» sibilò il ferito, allungando il braccio cui era attaccata la flebo. «Se dici a qualcuno del mio piano finisci con una pallottola in testa.»
«P-piano…?» ripeté Wilson, mentre l’altro gli strappava l’oggetto dalle mani.
«Sì, il mio piano per dominare il mondo» disse il ferito, aprendo il portafoglio per controllare, apparentemente, che vi fossero ancora tutti i soldi che vi aveva lasciato. «Solo cinque dollari?» bofonchiò.
«Non ho rubato niente» replicò Wilson, prima che l’altro potesse insinuarlo, ma guadagnandosi in risposta solo uno sguardo sospettoso.
«Non ricordo di quanto c’era, ma sai come si dice… excusatio non petita…»
«Non le ho rubato niente. Cercavo un documento d’identità per avvertire la polizia e il recapito di un parente per…»
«L’hai chiamata?»
«La polizia? Sì. Hanno avvertito suo padre.»
Seguì un lungo silenzio, durante il quale il ferito tornò a chiudere gli occhi, e James Wilson pensò che si fosse addormentato. Invece tornò a parlare. «Che fine ha fatto la mia moto?»
«È stata rimossa insieme alla Cadillac.»
«Vai sempre in giro a investire i motociclisti?»
«L’autista ha detto che lei ci ha tagliato la strada. Contromano.»
«Bella scusa.»
James Wilson si grattò la nuca, imbarazzato. «Comunque, il mio nome è James Wilson» disse, tendendogli la mano che l’altro non strinse. «Mi dispiace molto per l’incidente, non ero io alla guida…»
«Bella scusa» ripeté Mr. Rolling Stones, quella luce di fastidio sempre più intensa nelle iridi chiare.
«… non ero io alla guida e comunque la responsabilità è sua…»
«Dove mi hanno portato? Quale ospedale?»
«Al Princeton.»
Mr. Rolling Stones inarcò un sopracciglio. «L’hai scelto tu? Hai buon gusto, ragazzo. Quella direttrice sanitaria è una bomba del sesso.»
«Era il più vicino» replicò James Wilson, semplicemente.
L’infermiera entrò a controllare le condizioni del ferito, tagliando qualsiasi replica Mr. Rolling Stones avesse sulla punta della lingua.
James Wilson si alzò in piedi, tendendogli ancora una volta la mano destra. «Purtroppo adesso devo andare, signor House. Mi dispiace che ci siamo conosciuti in circostanze così sfortunate. In ogni caso l’agente ha detto che suo padre sarebbe arrivato tra poco.»
Gregory House scosse la testa. «Mio padre vive a Louisville. Sono tre ore di volo almeno…»
«L’hanno portata al pronto soccorso sei ore fa, signor House.»
Il ferito alzò gli occhi, sorpreso. Poi, lentamente, gli strinse la mano.
«Dei danni credo che se ne occuperà l’assicurazione» disse James Wilson, ricambiando la presa forte dell’altro. «Le auguro di rimettersi presto.»
Era appena uscito dalla stanza, quando poté sentire Gregory House chiedere all’infermiera: «Chi è quel pazzo?», e l’infermiera rispondere: «È un dottore; un oncologo, ha detto. È stato fortunato. Le ha salvato la vita».
Fandom: House MD
Coppia: Gregory House/James Wilson
Rating: PG-13. Più avanti incest. Siete avvisati.
Conteggio Parole: 2.414
Riassunto: Qualcuno non si sposa, qualcuno è geloso, e qualcuno si fa tanto, tanto male.
Disclaimer: Se togliete loro il cognome, David e Paul sono miei. E anche Sarah-la-moglie-N°1. Gli altri sono di papà Shore e dello stuolo di autori pazzi.
Grazie a: Ery e Morgana per le pre-letture e a Mercy per lo stesso motivo e perché non mi sopporta più XDD
Nota: questa fic è (e rimarrà) incompleta. (28/06/2009)
Prologo. The wedding day
13 Maggio 1992
Era una mattina di maggio, una bella mattina di sole, e il nodo di una cravatta non poteva certo sperare di rovinarne la bellezza.
Se gliel’avessero chiesto, James Wilson avrebbe risposto senza esitazione che quello era il più bel giorno della sua vita. Un po’ clichè, forse, un po’ scontato. Si suppone che il giorno del tuo matrimonio - specie se è il primo e non si trascina ingombranti paragoni alle spalle - sia il più bello della tua vita, e che niente possa intaccare la tua gioia.
Ma James Wilson vi credeva fermamente.
Mentre i lembi della cravatta gli scivolavano tra le dita leggermente tremanti, seguitava a ripetersi che ognuna di quelle emozioni che gli stillavano dal cuore al cervello come sgocciolii di un rubinetto difettoso non potevano essere solo il prodotto di reazioni chimiche; che tutto ciò che sapeva sulla natura biologica dell’uomo non poteva intaccare, neanche minimamente, la magia di ciò che stava provando. Che l’amore, o qualunque altro sentimento - compresa quella goffaggine fastidiosa ma dolce del non riuscire ad annodare la cravatta - andavano troppo oltre la comprensione sua o di chiunque altro essere umano, e che la medicina non avrebbe mai potuto circoscrivere i confini dell’anima.
E a lui andava benissimo così.
«Da’ qua, faccio io» interloquì Paul, voltandolo per le spalle e spostandogli le mani dal nodo sbilenco. «Hai le mani sudate» constatò, col tono di un’osservazione banale, in realtà reprimendo un sogghigno sotto i baffi. Letteralmente: Paul Wilson aveva un paio di rigogliosi baffi castani che facevano contrasto con la distesa perfettamente sbarbata delle guance.
A differenza di James, che aveva un che di morbido e di armonioso nei lineamenti, Paul era un uomo spigoloso e segaligno, più alto della media, a cui la sbarbatura sempre perfetta sembrava accentuare i mille angoli e incavi del viso, disegnandogli in faccia ombre puntute come lame di coltello.
Nel complesso era dotato di una sua armonia, anche se le ragazze gli avevano sempre preferito il fratello minore. Il carattere, probabilmente, più di qualsiasi avvenenza, gli aveva permesso di conquistare quella che fuor d’ogni intento poetico definiva la sua metà: una deliziosa hostess dieci anni più giovane, conosciuta durante un volo d’affari, che gli aveva dato modo di riprodursi in tre piccoli Wilson dai tratti molto più gentili e gradevoli del padre.
Nel complesso tra lui e James la somiglianza era minima, fatta eccezione forse per il taglio degli occhi.
James Wilson strinse i pugni, notando che sì, suo fratello aveva ragione. Aveva le mani sudate. Anche il nervosismo, però, gli sembrava una sensazione importante, da riconoscere e archiviare nella memoria. Quando l’avesse sentita bussare nuovamente alla sua coscienza, l’avrebbe riconosciuta e ricollegata a quel giorno particolare, a quel momento particolare, al sole che penetrava in tutta la sua pienezza tra le veneziane aperte e al lieve aroma di dopobarba di Paul che gli saliva alle narici.
«Che ore sono?» domandò, guardandosi intorno alla ricerca di un orologio.
«Le dieci, e tu sei quasi pronto. Stai calmo. Per arrivare in ritardo dovresti come minimo ammazzare qualcuno.»
«Si suppone che io debba salvarla, la gente, non ucciderla» commentò James, in tono per nulla rilassato.
«Certo, e avresti avuto maggiori probabilità con un’altra specializzazione…»
«Paul…»
«Niente, niente. La smetto.» Paul Wilson sorrise, facendo un passo indietro per contemplare la sua opera. «Voilà. Nodo perfetto, né troppo lungo né troppo corto. Sarah non potrà lamentarsi delle foto per il suo album.»
James sospirò, rimirandosi per qualche istante nello specchio. «Potrei anche presentarmi con un giubbotto di pelle e gli occhiali da sole, sarà sempre lei che guarderanno. Sarà… Dio, Paul, sarà bellissima.» Appoggiò le dita sul muro, premendo i polpastrelli rigidi contro la tappezzeria. «Tu l’hai vista? Con l’abito, intendo.»
«No, Christine mi ha trascinato via. Dice che porta male.»
«Porta male se lo vede lo sposo» lo corresse James. «E poi è una superstizione stupida.»
«Allora perché non hai fatto un salto? Paura di inciampare nello strascico?» interloquì una voce ironica dalla soglia della porta.
James sorrise, immaginandosi nell’atto di pestare un lembo dell’abito bianco di Sarah e volare dritto tra le braccia del rabbino, o peggio, della madre di lei.
«Sarah non voleva» rispose. «E poi mi piacciono le sorprese.»
David Wilson disincrociò le braccia e avanzò nella camera da letto, fermandosi alla sinistra del fratello. «Allora senti un po’ questa: non trovo gli anelli.»
«Cosa?» esclamò James, sbiancando.
Il fratello minore gli appoggiò il braccio sulla spalla, facendosi apparire come in un gioco di prestigio una scatolina di gioielleria tra le dita. «Scherzavo. Eccoli qui, i tuoi pegni d’amore.»
«Stai cercando di uccidermi? Aspetta almeno che torni dalla luna di miele» borbottò James, strappandogliela di mano e aprendola per controllare che fosse tutto a posto. Con David non si sa mai.
Invece era tutto a posto, gli anelli intatti, le incisioni perfette e senza sbavature.
Incontrò lo sguardo del fratello nello specchio. A differenza di Paul, tra loro due la somiglianza era netta e precisa come un esame del DNA. David aveva i tratti più affilati e i capelli più chiari dei suoi, ma gli occhi erano un marchio inconfondibile, la forma della mascella identica, gli stessi incisivi un po’ storti coperti dalle stesse labbra carnose. I suoi capelli, lunghi, gli solleticarono la guancia quando David appoggiò il mento sulla sua spalla.
Paul uscì dalla stanza.
«Senti, lo so che ne abbiamo parlato tante volte, ma…»
«Sì, David» lo interruppe. «Sono sicuro. La amo, voglio stare con lei per tutta la vita.»
«Ma è così…», prese un respiro, «scialba.»
«Non è affatto scialba, e comunque non per me. È bellissima.»
«Non mi riferivo all’aspetto.»
Si guardarono nello specchio. «È una ragazza molto intelligente, è dolce, è sensibile. Abbiamo mille cose in comune.»
«L’unica cosa che avete in comune è il modo in cui accostate i colori. E non è poi un granché.»
«Perché invece il signor…» gettò anche lui uno sguardo alla porta, per poi abbassare drasticamente la voce, «il signor Re della moda sa sempre come accostare i colori, vero?»
David ridacchiò, avvicinando maggiormente le labbra all’orecchio del fratello. «Sai perfettamente che il nostro senso del gusto è dieci volte più sviluppato del vostro. E non cambiare argomento, Jimmy.»
«Non ci sto neanche provando. Tanto non mi farai cambiare idea, Dave. Io la amo.»
«E va bene.» David fece un passo indietro. «Ma non aspettarti di venire a piangere sulla mia spalla quando troverai qualcuno più intelligente e sensibile e quella fede ti scotterà improvvisamente al dito.»
«Qualcuna, David» lo corresse distrattamente. «Qualcuna.»
«È quello che ho detto» replicò il fratello, lasciando la stanza.
Quando salì sulla Cadillac, l’autista accese il motore e gli rivolse un sorriso comprensivo nello specchietto.
L’uomo - un azzimato signore sulla cinquantina, dall’aria professionale - era stata un’idea di sua madre, così come la gran parte dell’organizzazione del matrimonio. A James non sarebbe importato di fare tanto in grande. Una cerimonia anonima in una sinagoga sperduta di periferia sarebbe stata più che sufficiente, per quanto gliene importava, e Sarah avrebbe potuto indossare un sacco di tela o niente - Dio -, e sarebbe stata ugualmente meravigliosa.
Tuttavia, c’era anche quel senso di giustezza nel fare le cose nel modo giusto, nei tempi giusti, col giusto contorno di decorazioni e parenti e madri in lacrime. James Wilson non amava le folle né il pubblico, ma doveva riconoscere che un matrimonio così ben organizzato - il suo matrimonio - sarebbe stato difficile da dimenticare.
Socchiuse gli occhi, specchiandosi nel finestrino.
Scialba.
Sarah non era affatto scialba. Aveva un carattere delizioso, la pelle bianca, e gli occhi… Dio, gli occhi. Quando sorrideva James si sentiva in grado di qualsiasi cosa. Si sentiva forte. Si sentiva bene.
David era intelligente, ma non l’aveva mai trovata simpatica. Forse aveva qualcosa contro la dolcezza in genere - visti i suoi gusti, era possibile - o forse semplicemente contro le ragazze giovani e belle che ti rubano il tuo fratello preferito.
Sì, era un po’ triste pensarlo, ma James credeva che la ragione primaria fosse la gelosia. A vent’anni si è troppo idioti per capire concetti come casa, famiglia, figli. E James ne aveva solo ventiquattro, ma sapeva di volere fermamente e con tutto il cuore ognuna di quelle tre, singole co-
L’urto lo proiettò contro il sedile antistante, mandando la sua faccia a sbattere con violenza contro il poggiatesta. Per svariati secondi vide stelline di dolore vorticargli sotto le palpebre, mentre una goccia di senso d’equilibrio scampato alla botta lo informava che la macchina si era fermata. James Wilson si passò il palmo sulla faccia e lo ritirò sporco di sangue. Il naso doleva come dopo una pallonata particolarmente violenta, e gli occhi presero a lacrimare per il bruciore che si spandeva rapidamente al resto del viso.
Quando riaprì gli occhi, si accorse di essere solo dentro la macchina. Lo sportello dell’autista era aperto. Da dietro il velo di lacrime cercò a tentoni la maniglia e brancolò fuori dalla vettura, mettendosi in piedi.
La prima cosa che vide fu il sangue, e non il suo. Ricopriva in una larga chiazza la fronte di un uomo riverso sull’asfalto, e in parte era gocciolato sull’asfalto stesso. Era tanto, troppo. Solo marginalmente James si accorse della moto in parte seppellita sotto la Cadillac, in parte conficcata nella carrozzeria. Un lampo di arancione gli balenò all’angolo dell’occhio, subito cancellato.
L’autista era chino sull’uomo svenuto, e continuava a ripetere a nessuno in particolare che non era stata colpa sua.
Prima regola in caso di incidente stradale: non toccare niente finché non arriva un medico.
Si lasciò cadere in ginocchio accanto al ferito, tastandogli il collo. Vivo, grazie a Dio. L’urto l’aveva sbalzato sull’asfalto a qualche metro dalla Cadillac. Niente casco.
Pescò il cellulare dalla tasca, componendo il 911 e tendendolo all’autista perché chiamasse i soccorsi. Il polso dello sconosciuto era debole, ma c’era. Aveva perso molto sangue. Merda.
Pupille dilatate, commozione cerebrale. Gli aprì il giubbotto, sollevando un’improbabile maglietta dei Rolling Stones per scoprire le costole. A un primo sguardo gli parvero intere, nessun ematoma. Voltò il ferito in una posizione meno innaturale, con delicatezza.
«Avanti, amico» sibilò, dandogli qualche schiaffetto sulle guance. «Svegliati. Svegliati, cazzo.»
Il polso andava rallentando.
«Se ti svegli te lo regalo io, un casco, ma svegliati, cazzo» ansimò, come se l’altro potesse sentirlo - e invece continuò a giacere inerte sotto le sue mani, come una bambola rotta.
Poi il polso si spense del tutto, e il cuore di Mr. Rolling Stones diede un ultimo battito prima di fermarsi.
Gli occhi erano azzurri, sotto le palpebre, intessuti di piccole venuzze rosse ai bordi. James Wilson non l’aveva notato, dapprima, ma l’azzurro dell’iride non era una distesa omogenea, bensì una superficie screziata di riflessi grigi e blu.
Qualcos’altro, comunque, oltre ai riflessi e alle screziature, vi si rimescolava dentro, e in questo caso gli pareva proprio fastidio.
Certo, non poteva biasimarlo… ma in qualche modo riteneva che lo sguardo di un ferito al risveglio dovesse essere un misto di confusione, paura, stupore. Il fastidio era un po’… eccentrico.
«Si trova in ospedale» gli disse, prima che lo chiedesse. Gettò un’occhiata al monitor dei segni vitali. «Ha avuto un incidente con la moto, ma adesso sta bene.»
L’altro dischiuse le labbra, umettandosele lentamente con la lingua. Non era sbarbato, e un po’ di sangue gli era rimasto incrostato tra i peli della barba, sulla mascella.
«Non mi… pare di averti invitato al mio funerale» borbottò, appuntando lo sguardo sul suo vestito elegante.
James Wilson sorrise appena, spontaneamente. «In realtà, oggi mi sarei dovuto sposare.»
«Ho rovinato un idillio? Lei ti ha lasciato dopo che l’hai abbandonata sull’altare?» sbuffò il ferito, sarcastico.
«Ehm… no.»
Mr. Rolling Stones, come l’aveva ribattezzato, chiuse gli occhi e poi li riaprì. «Ehi. Quello è il mio portafoglio» mormorò, con voce rauca.
«Mi scusi. Cercavo…»
«Cosa cercavi?» sibilò il ferito, allungando il braccio cui era attaccata la flebo. «Se dici a qualcuno del mio piano finisci con una pallottola in testa.»
«P-piano…?» ripeté Wilson, mentre l’altro gli strappava l’oggetto dalle mani.
«Sì, il mio piano per dominare il mondo» disse il ferito, aprendo il portafoglio per controllare, apparentemente, che vi fossero ancora tutti i soldi che vi aveva lasciato. «Solo cinque dollari?» bofonchiò.
«Non ho rubato niente» replicò Wilson, prima che l’altro potesse insinuarlo, ma guadagnandosi in risposta solo uno sguardo sospettoso.
«Non ricordo di quanto c’era, ma sai come si dice… excusatio non petita…»
«Non le ho rubato niente. Cercavo un documento d’identità per avvertire la polizia e il recapito di un parente per…»
«L’hai chiamata?»
«La polizia? Sì. Hanno avvertito suo padre.»
Seguì un lungo silenzio, durante il quale il ferito tornò a chiudere gli occhi, e James Wilson pensò che si fosse addormentato. Invece tornò a parlare. «Che fine ha fatto la mia moto?»
«È stata rimossa insieme alla Cadillac.»
«Vai sempre in giro a investire i motociclisti?»
«L’autista ha detto che lei ci ha tagliato la strada. Contromano.»
«Bella scusa.»
James Wilson si grattò la nuca, imbarazzato. «Comunque, il mio nome è James Wilson» disse, tendendogli la mano che l’altro non strinse. «Mi dispiace molto per l’incidente, non ero io alla guida…»
«Bella scusa» ripeté Mr. Rolling Stones, quella luce di fastidio sempre più intensa nelle iridi chiare.
«… non ero io alla guida e comunque la responsabilità è sua…»
«Dove mi hanno portato? Quale ospedale?»
«Al Princeton.»
Mr. Rolling Stones inarcò un sopracciglio. «L’hai scelto tu? Hai buon gusto, ragazzo. Quella direttrice sanitaria è una bomba del sesso.»
«Era il più vicino» replicò James Wilson, semplicemente.
L’infermiera entrò a controllare le condizioni del ferito, tagliando qualsiasi replica Mr. Rolling Stones avesse sulla punta della lingua.
James Wilson si alzò in piedi, tendendogli ancora una volta la mano destra. «Purtroppo adesso devo andare, signor House. Mi dispiace che ci siamo conosciuti in circostanze così sfortunate. In ogni caso l’agente ha detto che suo padre sarebbe arrivato tra poco.»
Gregory House scosse la testa. «Mio padre vive a Louisville. Sono tre ore di volo almeno…»
«L’hanno portata al pronto soccorso sei ore fa, signor House.»
Il ferito alzò gli occhi, sorpreso. Poi, lentamente, gli strinse la mano.
«Dei danni credo che se ne occuperà l’assicurazione» disse James Wilson, ricambiando la presa forte dell’altro. «Le auguro di rimettersi presto.»
Era appena uscito dalla stanza, quando poté sentire Gregory House chiedere all’infermiera: «Chi è quel pazzo?», e l’infermiera rispondere: «È un dottore; un oncologo, ha detto. È stato fortunato. Le ha salvato la vita».